Ci stiamo abituando a vivere con una mascherina sul volto.

Quando si parla di mandare i bambini a scuola per trascorrere la giornata davanti ad adulti mascherati la risposta che si sente spesso è: “Che problema c’è? Sono già abituati al supermercato e per strada.”

Ma se ci fermiamo un momento a riflettere capiamo che non è la stessa cosa.

Per strada o al supermercato incontriamo prevalentemente persone che non conosciamo o che non hanno un coinvolgimento importante nella nostra vita e nelle nostre emozioni. Ci sarà comunque un bel po’ di lavoro da fare sulla eccessiva diffidenza nei confronti dell’estraneo, anche se l’esperienza di “stare attenti” quando si incontrano “gli altri” – se questi altri non sono “importanti” – può avere un peso relativo nella vita quotidiana di un bambino.

Molto diverso è chiedere a un bambino di mantenere questa distanza e questa “attenzione” in situazioni con persone insieme alle quali prova emozioni forti, chiedendogli di farlo non per il tempo di un incontro, ma per molte ore al giorno, tutti i giorni.

La scuola è il luogo in cui il bambino passa molte ore della sua vita, scopre, si diverte, si emoziona. La maestra in quel momento è lì per accompagnare, accogliere e contenere le sue emozioni, per abbracciare e consolare quando serve, per con-dividere ciò che avviene dentro a quel corpicino in formazione.

Proviamo a immaginare che tutto questo avvenga frapponendo una barriera tra l’uno e l’altro. La maestra si avvicina. Dice “Sono qui per te, ti voglio bene, puoi affidarti a me, tra me e te va tutto bene” ma ha una barriera sul volto, un oggetto che divide, che richiama l’attenzione sull’esistenza di un problema, un possibile pericolo. “Qualcosa che non va” proprio tra lui e lei, qualcosa da cui bisogna proteggersi. Non si tratta di parole. L’oggetto/barrirera è lì, parla per noi, anzi spesso contraddice proprio il contenuto delle nostre parole.

Chi conosce i bambini nell’età dello sviluppo sa che ciò che avviene fisicamente e viene ripetuto quotidianamente è un messaggio molto più forte e incisivo delle parole che lo accompagnano.

Il bambino “sente” che fra tutti questi messaggi non c’è coerenza. Come può in una situazione come questa l’emozione fluire liberamente?

Egli cercherà di adattarsi al messaggio che l’adulto manda alla sua mente (“non preoccuparti, va tutto bene”) e lo farà al prezzo di negare ciò che sente nel corpo (la stretta allo stomaco conseguente allo stop ricevuto dalla barriera). Il bambino finirà anzi per abituarsi a questo meccanismo: non è importante ciò che sente dentro ma ciò che gli viene detto dall’adulto per lui importante, anche se per fare questo deve staccarsi dal corpo, spacccarsi, essere “solo mente”.

Finchè durerà questa situazione sarà questo l’insegnamento più importante della sua giornata, martellante, implicito e per questo ancor più subdolo e inevitabile.

E un altro grande pezzo verrà tolto ai bambini: la comunicazione emozionale che avviene attraverso le espressioni del volto.

“Vivo nell’espressione facciale dell’altro, nel momento in cui lo sento vivere nella mia.” (M. Merlau-Ponty, Le primat de la preception et ses conséquences philosophiques,1946)

Le neuroscienze hanno da tempo dimostrato la centralità delle espressioni facciali nel rispecchiamento emozionale, un meccanismo neuronale che costituisce un ingrediente fondamentale per l’apprendimento e la comunicazione e su cui basa l’empatia corporea, grazie alla quale stabiliamo il nostro rapporto con gli altri. Perché la comunicazione emozionale passi è necessario che siano visibili le epressioni del volto. (Marco Iacoboni, I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Bollati Boringhieri, Torino, 2008 e 2011)

A scuola tutto è rispecchiamento emozionale e costruzione dell’empatia. Il cerchio con gli amici, il cantare e leggere insieme, l’abbraccio della maestra e il sorriso che l’accompagna e mille altri esempi ancora sono tutti strumenti di cui i bambino si serve per apprendere e costruire la propria relazione con sé stesso e con il mondo.

Proviamo ad immaginare se l’adulto di riferimento – la persona sulla quale il bambino basa la propria regolazione emozionale e comportamentale – interrompe questa comunicazione o non può inviare i propri messaggi emozionali correttamente perché nasconde le proprie espressioni facciali. Come può regolarsi il bambino? A chi fare riferimento?

Confusione, contraddizione, vuoto di comunicazione emozionale, conflitto mente-corpo.

Ricordiamolo! Non si tratta di episodi o momenti brevi, ma di un TRATTAMENTO PROLUGATO a cui vengono sottoposti i bambini e che non può che lasciare SEGNI PERMANENTI la cui entità in questo momento é difficile da prevedere.

E non pensate che questi segni siano immediatamente visibili. I cuccioli di umano, come tutti i cuccioli, si devono adattare alle condizioni che l’ambiente impone loro e faranno tutto ciò che voi richiederete. E se voi vi mostrerete sereni, così si mostreranno anche loro. Mentre il trattamento che gli starete riservando andrà ad agire sui meccanismi sottocorticali (non razionali) e si radicherà nelle loro cellule.

Un’ultima cosa: come si potrà sentire una maestra che passa ore davanti ai bambini a cui vuole bene senza poter mostrare il proprio volto, senza poter condividere un sorriso o un bacio come l’istinto le suggerirebbe di fare? Come potrà condividere con i bambini le sue emozioni se essa stessa si troverà nella situazione di doverle combattere e contrastare?

Quale esperienza emozionale pensate vivranno insieme, grandi e piccoli?Pensateci. Forse è questo il pericolo più grande.

Alcune maestre e maestri di scuola dell’infanzia preoccupati